Skip to content

Superlega? Mi astengo

Qualche giorno fa è uscita una mia (dimenticabile) intervista con la Rivista online “Contrasti”, che è stata così gentile da presentare il mio ultimo libro, “Lo sport di domani”. Nell’intervista e nel volume in questione i più ardimentosi potranno trovare qualche riflessione sulla c.d. Superlega calcistica. Il comunicato rilasciato dalla FIFA in queste ore ha rilanciato ulteriormente lil tema, già caldo di suo. Su Facebook, “Contrasti” ha plaudito all’iniziativa della Federazione Internazionale, chiudendo la sua riflessione con queste parole: “Ora le opzioni sono due e ci vanno bene entrambe: o un calcio dei plutocrati che se ne vanno da soli, giocano a Singapore tra di loro e si arricchiscono fino alla nausea; oppure un calcio in cui gli oligarchi privati del pallone si ridimensionano e si danno una bella calmata”. Una posizione, con sfumature diverse, che sono abbastanza sicuro si risentirà in altre sedi nei prossimi giorni. Rispetto al giudizio fortemente negativo sotteso alle parole di “Contrasti” e ad altri contributi simili, ritengo che esse interpretino un sentire tanto genuino quanto comune, ma che non può solo per questo diventare l’unico “presentabile” in pubblico. Un corretto atteggiamento critico, e sto parlando solo di come IO vorrei affrontare le questioni, prova ad approfondire il tema, senza fermarsi alla superficie. Ben venga, quindi, il rispetto di valori come l’inclusione e la solidarietà, ma non è certo comprimendo lo sviluppo (e accumulando diseconomie) che si rispettano quei valori, anzi. Quella tra sport “puro” perché declinato all’interno del modello piramidale  e “impuro” perché inquadrato in una Breakaway League “chiusa” che subordina l’accesso al possesso di requisiti tecnici ed economici, è una falsa antinomia. Schierarsi a favore o contro una di queste due impostazioni a prescindere dall’osservazione del contesto storico, socio-economico e culturale è, a mio avviso, sbagliato. Non discuto le prese di posizione pro o contro la Superlega, ma la loro enunciazione basata su un pre-giudizio, positivo o negativo che sia, rispetto allo sport “ricco”, una categoria che non esiste. Anche negli USA, quelli che oggi sono indicati come la patria delle Leghe chiuse che non rispettano il verdetto del campo e obbediscono a pochi tycoon, c’è stato un tempo in cui la parola “professionismo” aveva un’accezione negativa di per sè. Agli inizi del
secolo, l’imprenditore nero Bob Douglas creò la prima squadra di basket composta
da soli afro-americani, i leggendari Harlem Rens. Quello che segue è il racconto
della sua ascesa imprenditoriale.

Gli Spartans di Douglas giocavano nella MBA, Metropolitan Basketball Association.
La MBA era devota a un concetto di dilettantismo bigotto e retrogrado, che
rappresentava un ostacolo serio sulla strada del progresso. Si sosteneva con forza
l’assunto che essere pagati per fare sport equivalesse a vendere l’anima al diavolo, e
la pratica era farisaicamente tollerata nei fatti ma proibita nella teoria. “Il
professionismo ha rovinato tutte le discipline sportive che lo hanno accolto” – tuonò a  fine diciannovesimo secolo Luther Gulick, cioè l’uomo che diede a Naismith il
compito di trovare per gli studenti dell’YMCA un passatempo al coperto. “Il
professionismo è una strada che nel lungo periodo non porterà da nessuna parte” –
faceva eco il Chicago Defender. Ossessionato dall’ obiettivo di battere i rivali di
Pittsburgh, Douglas reclutò il giocatore più importante degli avversari, James
Sessoms, offrendogli di più. L’MBA, sorda e cieca di fronte a un processo
irreversibile, lo multò per professionismo e lo squalificò. Identico provvedimento colpì “Strangler” Forbes per la successiva gara contro Loendi. La frattura tra le due
concezioni di organizzazione sportiva, così simile alla diatriba FIBA-EuroLeague,
divenne definitiva quando MBA dichiarò i Loendi Five “una minaccia alla
pallacanestro dilettantistica”, impedendo ai suoi membri di giocare contro gli impuri
salariati di Pittsburgh. In una donchisciottesca lotta contro i mulini a vento, MBA
sospese alcune sue squadre. Più però la reazione era forte, più si andava verso
l’inevitabile fine di un’era.

Ieri (tennis, golf, Eurolega, pattinatori, etc.) e oggi, molti si prendono oneri e onori di una decisione che riserva rischi e insidie. Non hanno il mio plauso o la mia riprovazione, non ne vedo il motivo. Sono un osservatore, e spero che si possa discutere nel merito strategico e imprenditoriale della loro decisione, la cui efficacia verrà determinata solo dalla risposta del mercato. Quando parlo di “discutere”, non identifico questo processo nel dividersi in due partiti prima di cominciare a parlare (nel libro provo a spiegare l’assurdità di una simile impostazione). Discutendo di qualsiasi cosa, credo sia il caso di tenere a mente le parole scritte da Timothy Snyder per un recente editoriale del New York Times:

When we give up on truth, we concede power to those with the wealth and charisma to create spectacle in its place. Without agreement about some basic facts, citizens cannot form the civil society that would allow them to defend themselves. If we lose the institutions that produce facts that are pertinent to us, then we tend to wallow in attractive abstractions and fictions. Truth defends itself particularly poorly when there is not very much of it around, and the era of Trump — like the era of Vladimir Putin in Russia — is one of the decline of local news. Social media is no substitute: It supercharges the mental habits by which we seek emotional stimulation and comfort, which means losing the distinction between what feels true and what actually is true.

Anche parlando di una sciocchezza, rispetto ai destini del mondo, come questa vicenda, credo davvero che serva ancorarsi ai fatti, e non farli precedere da una pregiudiziale pro o contro qualcuno (FIFA, Superlega, ricchi, poveri, europei, americani). Senza questo metodo, sarà impossibile non finire stritolati da chi ha più risorse ed è in grado di “sovraccaricare le nostre abitudini mentali”.

 

 

 

 

Published inHomepage