Secondo Andreff (2002) c’è una linea che divide il sistema di Lega chiusa dello sport professionistico nord-americano, definito come una sorta di economia quasi-socialista nel bel mezzo del capitalismo di mercato dell’America liberale, e il sistema europeo della Lega aperta, basato su una deregulation che si è diffusa con grande velocità dal calcio agli altri sport. L’evidenza empirica studiata dall’autore mostra che la differenza principale tra i due modelli sta nel Soft Budget Constraint delle Leghe europee (vedi 4.1.1). Andreff (2007) e Szymanski (2003) hanno isolato diversi aspetti che descrivono le differenze di organizzazione, regolamentazione e gestione tra il modello chiuso/americano e quello aperto/europeo.
- Una Lega nord-americana è un’organizzazione indipendente che chiude l’accesso tramite una barriera all’entrata rappresentata dalla vendita delle c.d. franchigie, laddove invece una Lega europea è integrata all’interno di una struttura gerarchica e piramidale che dipende sia a livello nazionale che internazionale da una Federazione.
- In una Lega chiusa il numero e l’identità delle squadre sono fissati a livello centrale, mentre il sistema di promozioni/retrocessioni assicura una mobilità ascendente/discendente alle Leghe aperte.
- In una Lega chiusa ogni soggetto agisce in regime di monopolio su un territorio urbano, con criteri di esclusività cui si deroga solo se il territorio di riferimento è così vasto da consentire una compresenza. Le franchigie, a date condizioni, possono effettuare la c.d. relocation, per cui la loro mobilità è geografica, rispetto a quella verticale che interessa le associate europee.
- Il concetto di competitive balance è perseguito in ambedue i modelli, ma mentre nelle Leghe chiuse si basa su meccanismi precisi (draft, salary cap, ecc.) e sull’omogeneità economica delle squadre, nelle Leghe aperte il sistema di promozioni/retrocessioni a un tempo crea equilibrio competitivo e lo riduce, con le squadre più forti che accedono a competizioni europee che vedono aumentare le entrate e squadre che retrocedono che possono anche perdere il 75-80% dei ricavi.
- Una Lega chiusa può restringere le regole di accesso e la mobilità dei giocatori godendo di un potere di monopsonia sul mercato dei giocatori. In Europa la sentenza Bosman (1995) ha fatto cadere ogni restrizione nella libera circolazione dei giocatori all’interno dell’UE, azzerando il valore dei “cartellini” e creando perdite patrimoniali che hanno rischiato di mettere in ginocchio l’intero sistema. Wahl e Lanfranchi (1995) per definire la situazione prima della citata sentenza hanno usato il termine “schiavitù”.
- L’ammontare di denaro che può essere inserito in uno scambio di giocatori tra due società è soggetto a limitazioni in USA (5,2 milioni di dollari nel caso di NBA) e non in Europa.
- Il concetto di salary cap è presente solo nelle Leghe professionistiche nord-americane, che vogliono evitare l’eccessiva concentrazione di giocatori pregiati in poche squadre per proteggere il prezioso competitive balance.
- Nelle Leghe americane si rileva la presenza di una forte Associazione giocatori, che negozia il Contratto Collettivo di lavoro. In Europa la sindacalizzazione dei giocatori è bassa, e non esiste un Contratto Collettivo.
- Nelle Leghe chiuse è normale che i proventi centralizzati siano divisi in parti uguali tra le associate. In USA le franchigie professionistiche sono gli unici soggetti intitolati legalmente a esercitare un monopolio sul mercato di riferimento, in forza dello Sports Broadcasting Act del 1961. In Europa è invece comune una distribuzione di questi proventi basata sui rapporti di forza e sui risultati sportivi.
Il tema del miglior modello di governance di una Lega è oggetto di serrato dibattito in letteratura. Quasi nessuno dubita della maggiore solidità delle dinamiche parasociali e finanziarie delle Leghe nord-americane, che realizzano quell’obiettivo di riduzione dell’incertezza che così tanta importanza ha nella teoria economica. Il modello europeo vive invece nella contraddizione tra l’asserito desiderio di maggior compattezza e gli oggettivi cedimenti a spinte disgreganti, che indeboliscono la forza dell’organizzazione. È difficile prevedere se in futuro uno dei due modelli prevarrà, oppure se si creeranno forme di coesistenza o sincretismo. Ai due modelli è comune il fatto che gli stakeholder più potenti e legittimati siano i singoli club. Le interrelazioni tra questi ultimi e il soggetto collettivo sono numerose e uniche per complessità. Avversari sul campo, i singoli club si trovano infatti a collaborare in Lega per massimizzare il rendimento degli investimenti nel settore. Nello stesso contesto, però, i club cercano di conseguire il maggior peso possibile per orientare le decisioni della Lega, trovandosi quindi ancora in competizione con gli altri associati. In più, le pressioni competitive che disallineano gli interessi degli associati spaziano dal campo economico a quello agonistico, ponendo serie questioni di governance a chi deve indirizzare l’azione verso i migliori interessi dell’organizzazione. I club affiliati in una Lega possono avere nulla in comune tranne un calendario e un set di regole generali, che si riferiscono soprattutto al funzionamento interno della Lega e ai limiti che quest’ultima si pone rispetto all’azione dei singoli club. Più questi limiti sono forti, più la Lega fatica a guidare il comportamento dei club. Viceversa, all’estremo opposto dello spettro analitico, stanno le Leghe che hanno un potere di indirizzo assoluto rispetto ai comportamenti degli associati, come NBA (vedi 1.2). Perrone (2017) definisce in prima battuta il potere come la capacità di produrre effetti, e nell’ambito del comportamento organizzativo circoscrive la definizione a “capacità di indurre altri attori sociali ad agire in modo coerente con gli scopi e gli interessi di chi lo esercita”. I caratteri più stringenti che vengono introdotti sono quelli dell’intenzionalità di chi esercita il potere, dello scopo favorevole al suddetto soggetto e della resistenza di chi subisce l’influenza da superare. Chi subisce il potere dipende da chi lo esercita, e in questa dipendenza trova una limitazione alla propria libertà. L’influenza, altro concetto fondamentale, è invece qualificata come “l’insieme delle azioni messe in atto da un soggetto dotato di potere per ottenere acquiescenza da parte di chi quel potere subisce”. Il potere deriva da un’asimmetria nel controllo delle risorse di valore, cioè quelle utili o necessarie “per realizzare gli scopi, i valori e le intenzioni di chi ne è privo”. Nel prosieguo della ricerca si vedrà come il potere di EuroLeague e FIBA sia stato fluttuante negli anni a seconda della disponibilità, o meno, di risorse economiche in grado di sostenere i crescenti costi dell’attività delle associate. I tratti del potere che più rilevano per una Lega paiono essere le capacità relazionali e le doti politiche, intese come costruttrici di consenso. Una Lega europea non può infatti esercitare il suo potere tramite costrizione e coercizione, e per certi versi neppure usando l’autorità, che è invece il perno della governance NBA. Il binario su cui può muoversi un soggetto come EuroLeague è quello della persuasione, basata sulla massima sollecitazione della partecipazione dei club che devono riconoscere il potere della Lega. In letteratura questo processo viene descritto come la tendenza a mettere influenzatore e influenzato sullo stesso piano cognitivo ed emotivo. È in effetti tipica delle Leghe europee la presenza di rappresentanti dei club negli organi di governance. Lo stesso dicasi per le numerose Commissioni incaricate di studiare questioni e proporre misure, formate da rappresentanti delle associate e personale della Lega. Ciò non attenua però, se non in parte, la volontà dei club professionistici di “smarcarsi” da qualsiasi condizionamento, considerando tale sia il controllo delle Federazioni che quello delle Leghe. Il maggior valore che l’agire come soggetto collettivo conferisce al prodotto non è sempre sufficiente, nella logica dei club europei, a controbilanciare la naturale compressione della libertà di impresa che ne deriva. È possibile sostenere che se economicità, sostenibilità e profitto fossero obiettivi con un più alto grado di priorizzazione nelle strategie dei club europei, le Leghe sarebbero più forti.
Secondo McCann (2010), i proprietari NBA hanno “abbracciato una forma democratica di governance”. L’aggettivo non va inteso nell’accezione politico-sociale-ideologica, bensì va riferito al fatto che il Board of Governors, organo che determina le decisioni di business e policy della Lega, è formato da un rappresentante per ciascuna franchigia. Secondo l’autore, l’aggettivo “democratico” ben si attaglia anche al fatto che molti poteri sono delegati al Commissioner, forza centralizzatrice in grado di attuare un decision-making reattivo rispetto alle forti sollecitazioni ambientali. Tutto questo non deve però far dimenticare che le 30 franchigie sono concorrenti in senso stretto, come si evince dall’aspra lotta che le convolge durante la off-season per assicurarsi le prestazioni sportive dei migliori free agent (giocatori a cui è scaduto il contratto).