Bostjan Nachbar, dopo essere stato ottimo giocatore, è oggi Managing Director della EuroLeague Players Association (ELPA). Laureato in Leadership and Management presso la Northumbria University, il suo punto di vista è sempre interessante. In queste ore, Nachbar ha commentato sul suo account Twitter la notizia dell’aumento del salary-cap NBA previsto per la stagione 2022-2023, iniziata da poche ore.
L’argomentare di Nachbar muove da un tweet di Bobby Marks, che collabora con ESPN NBA occupandosi di questioni legate al cosiddetto front office.
Nel suo tweet, Marks usa l’acronimo BRI, che sta per Basketball Related Income. Un primo tweet di Nachbar, in sostanza, propone di provare a capire di più sull’argomento, esigenza che condividiamo.
Il BRI include qualsiasi reddito generato dalle operazioni sportive incassato da NBA, NBA Properties, NBA Media Ventures e altre società collegate alla casa madre. Al suo interno sono conteggiati anche tutti i ricavi provenienti da attività commerciali nelle quali la Lega, una sua entità o una sua franchigia hanno una partecipazione azionaria superiore al 50%. A determinare il BRI concorrono le seguenti voci di entrata, alcune decurtate dell’aliquota fiscale (50%) e di altre reasonable expenses deducibili (fonte: cbafaq.com).
- Regular season gate receipts, minus taxes, facility fees, reasonable expenses, and certain charges including those related to arena financing
- Broadcast rights
- Exhibition game proceeds, minus summer league expenses
- Playoff gate receipts
- The value of all complimentary tickets, minus “excluded complimentary tickets” (1.9 million tickets in 2017-18, increasing by 50,000 each season thereafter)
- The value of complimentary suite admissions
- Novelty, program and concession sales (at the arena and in team-identified stores within proximity of an NBA arena)
- Parking
- Proceeds from team sponsorships
- Proceeds from team promotions
- Arena club revenues
- Proceeds from summer camps
- Proceeds from non-NBA basketball tournaments
- Proceeds from championship parades
- Proceeds from mascot and dance team appearances
- Proceeds from beverage sale rights
- Proceeds from cart/kiosk sales in and around the arena
- 50% of proceeds from tours and ATM fees in arenas
- 50% of proceeds from arena signage
- 50% of proceeds from luxury suites
- 50% of proceeds from arena naming rights
- 50% of the proceeds from team practice facility naming rights
- Proceeds from other premium seat licenses
- Proceeds received by NBA Properties, including international television, sponsorships, revenues from NBA Entertainment, the All-Star Game, and other NBA special events.
- Proceeds from gambling on NBA games, except from casinos or other gambling businesses owned or operated by a team, a related party or a league-related entity
Il BRI atteso, da cui si estrae poi il salary cap, è frutto di una trattativa tra Lega ed NBPA. Se i contabili delle due parti non trovano un accordo entro il 30 giugno, si utilizza la cifra che risulta sommando le entrate dagli accordi con i broadcaster nazionali e il BRI della stagione precedente aumentato del 4,5%. La cifra che rappresenta il tetto, non massimo, dei compensi per gli atleti risulta dal 44,74% del BRI atteso diviso per 30 (il numero delle franchigie). Non sfugge la difficoltà nel determinare il BRI e nell’operare con cifre stimate, che possono poi rivelarsi diverse a consuntivo. Ai giocatori va in tutto almeno il 50% delle entrate previste, più (o meno) il 60,5% dell’ammontare rilevato a consuntivo, con un limite minimo del 49% e massimo del 51% rispetto al BRI. Le stime del BRI stilate pre-pandemia erano di 6,07 miliardi di dollari per il triennio 2019-2022; chiudere a consuntivo con una media superiore ai 7 miliardi dopo le ben note vicissitudini è un indiscutibile segnale di solidità.
Se vogliamo semplificare, quello che fa NBA è molto facile : per 100 che entra, ai giocatori va 50. Questo garantisce l’equilibrio competitivo, che a sua volta permette quella crescita che, facendo salire il BRI, si traduce in salari maggiori. Giova una volta di più ricordare che a questo traguardo si è giunti attraverso lotte sindacali molto dure, che hanno coinvolto anche la complessa giurisdizione americana. Nel 1987 Leon Wood, proprio quello che ha giocato anche a Varese e Caserta e oggi fa l’arbitro alle dipendenze di NBA, citò in giudizio la Lega cercando di bloccare il draft e il salary cap. Questo per illustrare come l’equilibrio tra parti negoziali non si possa raggiungere solo con la buona volontà, ma solo esercitando le proprie responsabilità e perseguendo il successo di medio-lungo periodo del business, l’unico obiettivo comune che quelle parti possano darsi.
Nachbar poi, con un altro tweet, invita il basket europeo a prendere buona nota di quanto scritto da Marks.
Quale lezione potrebbe però trarre il basket europeo, entità astratta che in teoria comprende tutto ciò che va dai top club di Eurolega fino alle valenti formazioni di tornei nazionali minori, da questa notizia? La chiave, mi pare di capire, sta nella parola partnership, della quale agevolo la definizione secondo il dizionario Treccani.
In senso proprio, la partnership è un rapporto di collaborazione tra due o più imprese finalizzato alla costituzione, alla gestione e alla realizzazione di un progetto comune. Può essere verticale, orizzontale, mista o strategica, e presuppone una comunanza di interessi (leggi massimizzazione del profitto di medio-lungo periodo) e pianificazione. La partnership di cui parla Marks, va invece interpretata in un senso assai più lato. Se volessimo un po’ forzare l’argomento, potremmo infatti ricordare a lui e a noi che i giocatori vorrebbero essere pagati molto, gli spettatori vorrebbero pagare poco e gli investitori pubblicitari avrebbero piacere di avere molto spazio in cambio della minor spesa possibile. Negli USA e ovunque, fuor di retorica, gli interessi dei proprietari sono in diretto conflitto con quelli delle categorie elencate. L’equilibrio tra i predetti e confliggenti interessi si ottiene infatti solo in un teatro chiamato mercato, in cui non esistono partnership, bensì ruoli e obiettivi. Un teatro in cui, come in campo, ci si confronta, ed alla fine si vince o si perde (senza pareggi, come nel basket). Tra qui e (almeno) dicembre, per esemplificare, NBA ed NBPA saranno fiere avversarie nella battaglia per il nuovo CBA, Ciò nulla toglie al fatto che la trattativa verrà condotta con una correttezza (good faith) peraltro imposta dalla legge ( e non dai buoni sentimenti). Semmai, ad ambedue i contendenti sono chiari il ruolo strategico e il peso specifico della controparte, che viene ammessa al tavolo con la dignità che ne consegue.
Nachbar, proseguendo nel ragionamento, afferma che anche l’NBA ha i suoi problemi, ma a differenza del basket europeo «continua a crescere».
Chiaramente in queste ore il tema del player empowerment è tornato di massima attualità (cfr. Kevin Wayne Durant). Prima di proseguire, osservo che è un rappresentante sindacale dei giocatori a esprimersi in maniera negativa nei confronti dell’acquisizione di leverage da parte dei suoi colleghi d’oltreoceano. Lo ritengo curioso, e mi rimane la curiosità di capire come questo giudizio negativo sia argomentato.
Presumo, per logica, che possa legarsi ai concetti di equilibrio e purezza, citati subito appresso. Per quanto riguarda la questione dell’equilibrio competitivo, rimando a un contributo appena più organico sul tema. Due parole le spenderei invece sulla purezza, il cui rapporto con una maggiore libertà di movimento dei giocatori mi sfugge. Rappresentare una realtà complessa e articolata come l’NBA in termini così generici non rientra, credo, tra i migliori interessi di chi vuole provare a studiare la realtà. Se infatti per “purezza” si intende la genuinità del risultato, e immagino che sia così, per metterla in dubbio tout court servirebbero basi fattuali un po’ più solide.
Quello che però interessa di più è l’ultima fase dell’interessante ragionamento di Nachbar.
Sposo entusiasticamente la nozione che in Europa non ci sia l’auspicabile capacità di lavorare in sinergia per la crescita e lo sviluppo del business. Ci sono però due parti che vorrei approfondire. La prima riguarda il concetto di partnership, che andrebbe declinato molto di più nel suo senso proprio (vedi sopra) e molto di meno in quello improprio (idem). La seconda attiene invece all’evocata lotta per la propria fetta di torta. Se parliamo di soggetti economicamente razionali, è impossibile che essi non avvertano che cucinare una torta (molto) più grande ha un senso ben maggiore che non competere a forza di colpi bassi per le briciole di ogni fettina. Briciole che, come ricorda giustamente Nachbar, al momento non permettono la crescita (e se è per quello neppure il break-even). Dubito però che una generica chiamata alle armi per un’ancor più generica comunione di intenti possa produrre cambiamenti e innovazioni così profonde come quelle che sarebbero necessarie per invertire un trend così sedimentato come quello dello sport professionistico europeo.
La scelta di campo non è tra il modello americano e quello piramidale. Se così fosse, per esempio, Euroleague non avrebbe i problemi che ha. No, la scelta è tra due modalità di rapporti tra le parti, una ispirata al concetto di negoziazione integrativa e l’altra che è invece quella (distributiva) attualmente invalsa. Una modalità che è a somma zero che più somma zero non si può. Non perché i soggetti interessati sono miopi o egoisti, ma perché si ritiene soddisfacente la situazione, nonostante le contraddizioni mostruose che genera (una per tutte: destinare ai giocatori ben più del 50% del BRI prescritto dal salary cap). In nuce si tratta di scegliere tra due alternative: 1) confrontarsi con il mercato perseguendo il profitto (cioè fare l’impresa) e 2) baloccarsi con l’inevitabilità delle perdite e la “funzione sociale dello sport”.
Finora la prima opzione è stata esclusa con forza, sia a livello di operatori (che nella maggioranza non disdegnano lo status quo) sia di opinione pubblica. Se l’idea è di cambiare, fateci un fischio e preparate qualcosa di epocale. Viceversa, le due tendenze illustrate (crescita di là, arrangiarsi di qua) continueranno a divergere, indipendentemente dalla sempre auspicabile voglia di fare “partnership”.