Non si può dire che non se ne sia parlato. Un post su Facebook ci ha messo tre giorni per varcare Manica e Atlantico, arrivando a Guardian e New York Times dopo essere transitato per tutti i grandi media italiani. Ora se ne riparla, anche perchè la pallavolista si è schierata a favore della candidatura di Antonella Bellutti alla presidenza del CONI, con un robusto sostegno da parte dell’associazione Assist.
Sì, del caso di Lara Lugli si è parlato, molto, e molto se ne riparlerà. Con una singola eccezione, a prima vista siamo tutti dalla stessa parte. Tutti, sui media, in Senato, ovunque. E se limitandoci a questo plebiscito mancassimo il bersaglio? Se tutti diciamo la stessa cosa, uno potrebbe chiedersi, dove sta il problema? Oddio, una voce dissonante c’è, quella dell’avvocatessa che ha redatto l’opposizione al decreto ingiuntivo.
Quell’atto non è però un’opinione (men che mai di un’istituzione), bensì una mera elaborazione tecnico-giuridica prodotta da una delle parti di una controversia. Parte che, peraltro, si rimette con esso alla decisione del Giudice di Pace, competente per la modesta entità della controversia stessa (quantificata in 2500 euro). Cosa rappresentano questi 2500 euro? La sesta delle otto rate del contratto di Lara Lugli con ASD Pordenone Volley. Una rata che la società friulana si è rifiutata di pagare nonostante i ripetuti solleciti, prima per le vie brevi e poi con l’intervento di un legale, avanzati dall’atleta. 2500 euro che il club non ha mai negato di dovere alla Lugli, la quale a propria volta non ha mai contestato la risoluzione per giusta causa del contratto a causa della sopravvenuta gravidanza. Se il giudicante, che il 18 maggio p.v. potrebbe riservarsi la decisione dopo aver tentato la conciliazione tra le parti, al termine dell’iter riterrà inesistente l’inadempimento contrattuale da parte della Lugli, la vicenda si chiuderà (fisiologicamente) con l’esecuzione del decreto ingiuntivo.
Ora, serve capirsi bene. Con il massimo rispetto di tutto e tutti, stiamo parlando di un’opposizione (motivata come avete modo di leggere sopra) a un decreto ingiuntivo per 2500 euro. Scusate, ma non è Browder v. Gayle, non siamo a Montgomery nel 1956 e le parti non stanno per comparire davanti alla US Supreme Court. Non siamo neppure nella Sicilia del 1965, se è per quello. Siamo di fronte a una controversia economica, da aggiudicarsi davanti al Giudice di Pace, che non riguarda la questione della gravidanza in sé, atteso che nessuna delle due parti contesta che all’articolo 11 punto e) il contratto parli di risoluzione per giusta causa in caso di “comprovata gravidanza”.
Gli esempi di inadempimento, nel contratto che la Lega Volley femminile suggerisce a società e giocatrici di serie A, sono i seguenti:
Il Giudice sarà chiamato a decidere solo e soltanto se la Lugli abbia violato il citato articolo 4 del contratto, e se questa asserita violazione possa permettere al club di assorbire i 2500 euro non pagati in compensazione. Poiché mi pare possibile che il Giudice di Pace (a sua volta una donna) possa rigettare l’opposizione del difensore della società pordenonese (condannando quest’ultima alla liquidazione dei 2500 euro) lascerei in sospeso la questione, perlomeno fino ad allora. Non vedo la necessità di trattare le deduzioni giuridiche dell’avvocatessa come opinioni, perché tali non sono. Ancor meno vedo la necessità di accanirsi nei confronti di una professionista che ha esercitato il proprio ruolo in maniera del tutto legittima, indipendentemente dalle sue eventuali idee di donna su maternità e tutele. Lo dico pur non ritenendo affatto fondate quelle deduzioni, e pensando che il mese di prestazioni rese debba in ogni caso essere liquidato alla Lugli. Ben comprendo, invece, come le modalità dell’opposizione possano aver ferito la sensibilità dell’atleta, vista la delicatezza del tema. Comprendo lei però, e non le molte persone che, senza avere chiari i termini della vicenda, hanno di fatto trasformato quest’ultima in ciò che non è.
Avrei chiesto i danni derivanti dalla gravidanza, poi interrotta, in compensazione? Mai e poi mai. Presentare quell’opposizione è però un diritto del club, e come tale va riconosciuto, impregiudicato il nostro diritto di criticarlo nell’ambito del suo valore. Nella (presumo remota) eventualità che il Giudice di Pace accolga l’istanza della società sportiva, ne riparleremo. Diversamente, dobbiamo sforzarci di capire che è una banale questione tecnico-giuridica, non etico-morale. Pensare che dalla decisione del Giudice di Pace dipendano i destini di tutte le atlete in gravidanza o addirittura di tutte le donne in stato interessante, è francamente abnorme. Pensare che il club abbia detto “sei incinta e ti licenziamo” è invece un falso storico, proprio perchè la situazione era espressamente normata nel disposto contrattuale, tanto da non essere mai stata contestata dall’atleta, che ha firmato quel patto in piena libertà e coscienza (altrimenti sarebbe stato dichiarato nullo ab initio). L’ASD è inadempiente su un pagamento, e quando è stata chiamata dal decreto ingiuntivo a onorare il debito ha opposto quegli argomenti. Posso dire con tranquillità che non condivido una riga di quell’opposizione e che spero che quegli assunti non vengano considerati dal Giudice di Pace motivo di compensazione. Lascio però serenamente al Giudice di Pace il compito di decidere sul merito di una questione francamente bagattellare. O vogliamo davvero investirla del compito di difendere tutte le donne in gravidanza del mondo con un provvedimento esecutivo?
Quanto sopra, non significa che non si possa prendere la vicenda a pretesto per interrogarsi su aspetti importanti. Basterebbe infatti alzare lo sguardo dalla insignificante controversia per cogliere aspetti strutturali che questo caso attraversa, lambendo territori delicatissimi. Potremmo parlare, en passant, di donne e compensi, quindi di gender gap. Come siamo messi da questo punto di vista in Italia? Male, molto male. Possiamo risolvere la questione dichiarandoci tutti furiosamente d’accordo con tutti su piattaforme social e media tradizionali? No. E neppure, se posso, trasformando (senza che lei lo abbia mai chiesto) una persona che si batte per vedere riconosciuto un proprio sacrosanto diritto economico in un’eroica e ribelle paladina che, vedendosi eventualmente aggiudicare un verdetto in sede giudiziaria, rimetterà a posto le cose.
Ancor più rilevante, sempre ai margini della vicenda, è la questione della protezione della donna in gravidanza. E qui tutto il mondo dello sport, non il Pordenone Volley, ciurla nel manico. Nel servizio curato dalle Iene, la giocatrice si definisce “professionista”, e sono certo che si tratti di una qualificazione veritiera. Eppure, nel contratto-tipo che la Lega Volley femminile consiglia di adottare, si parla espressamente di dilettantismo.
In fondo, la discussione potrebbe finire qui. Atlete e atleti che si sentono e sono (oggettivamente) professionisti andrebbero equiparati nei trattamenti e nelle tutele al pugno di colleghi che ricade nella Legge 91, per elementari motivi di equità, donne o uomini che siano. Questo non è avvenuto finora, ed i motivi sono chiarissimi a chi voglia vederli senza pregiudizi. La cosa francamente insopportabile è che tutti, inclusi quelli che portano a vario titolo la responsabilità di questo stato di cose, menzionano la discrasia come se riguardasse solo questo caso e come se fosse nata sotto i cavoli. Le istituzioni sportive e politiche, che a parole hanno tutte sostenuto la Lugli, hanno prima espresso con questo comunicato del Governo il concetto che
Il decreto relativo agli enti sportivi professionistici e dilettantistici e al lavoro sportivo dispone, in attuazione dell’articolo 5 della legge delega, una revisione organica della figura del “lavoratore sportivo”: per la prima volta, si introducono tutele lavoristiche e previdenziali sia nel settore dilettantistico sia nel settore professionistico. Inoltre, il testo prevede l’abolizione del vincolo sportivo, inteso come limitazione alla libertà contrattuale dell’atleta, anche nel settore dilettantistico. Il decreto stabilisce che le norme introdotte dalla disciplina in materia di lavoro sportivo si applicano a decorrere dal 1° luglio 2022.
… salvo poi rimandare tutto al 31 dicembre 2023 (cioè dopo il termine della presente legislatura). Almeno fino a quella data la situazione rimarrà questa, il che mi fa pensare che ci sia un certo grado di ipocrisia nello strapparsi le vesti per quei 2500 euro (che, lo ripeto, nulla hanno a che vedere con la questione). Il tema è che abbiamo atleti e atlete che fanno la stessa cosa e sono oggetto di una normativa giuridica e fiscale diversa, ed è un tema che andrebbe affrontato in questi termini. Cosa che, come abbiamo già visto, non si è fatta neppure questa volta, nonostante annunci reboanti e spettacolari, grandi Commissioni e tonnellate di retorica e tattica (che di strategia non se ne vede).
Eppure, già nel 2016 un esperto come l’avvocato Martinelli aveva fotografato la situazione con grande nitidezza. Poi arrivò il Decreto Dignità del 2018, che apriva questioni abbondantemente sollevate all’epoca e non risolveva quelle sottese al “dilettantismo”. Oggi siamo nel 2021, e sarebbe scorretto dire che non sono stati fatti dei passi avanti. Per esempio, al problema della gravidanza delle sportive hanno risposto nel 2018 CONI e Governo, istituendo un fondo che offre un sollievo tangibile alle atlete in maternità. Solo che non si è voluto risolvere la questione in maniera organica. Non si vogliono infatti far valere in questo settore i meccanismi che governano fisiologicamente il rischio imprenditoriale e l’ attività lavorativa, come se lo sport si potesse davvero ritenere diverso dagli altri (vedi SuperLega e dintorni). Così, qualche volta di mezzo ci vanno dei diritti, e anche belli importanti.
Se si vuole inseguire la favola del mecenatismo, lato proprietari, va benissimo. Poi però i mecenati faranno il piacere di rispettare gli impegni presi, senza usare la funzione sociale dello sport a mo’ di foglia di fico delle loro inadempienze. La pratica di chiedere “comprensione” ai dipendenti in presenza di contratti firmati, salvo rare e comprovate eccezioni, non va mai assecondata (pacta sunt servanda). Se si vuole agire individualmente per il vantaggio immediato, lato atleti, idem. Basta non sperare però che si possano avere allo stesso tempo compensi relativamente alti, figli di contratti di quella “flessibile” natura, e tutele previdenziali e assistenziali (senza versamenti).
Facciamo a capirci bene: le due parti che firmano i contratti “dilettantistici” dello sport italiano oggi preferiscono questa modalità, perché ritengono che gli convenga di più. Tanto è così, che il rinvio alle calende greche della disciplina del lavoro sportivo è stato salutato, sia pure rigorosamente dietro le quinte, con soddisfazione da parte della stragrande maggioranza di “investitori” e operatori del mondo “dilettantistico”. Pur criticando questo doppio registro, incendiari in pubblico/pompieri in privato, tutti sono liberi di perseguire il proprio interesse. Proprio come io sono libero di sostenere che questi soggetti peccano di lungimiranza e di auspicare che si astengano dal darci una versione edulcorata della realtà, per assumersi invece in toto l’intera responsabilità delle scelte che operano.
Tutti dovremmo essere sufficientemente adulti da riconoscere che è per i motivi di cui sopra che le spettanze sono spesso “ballerine” e che gli adempimenti contributivi e fiscali rimangono nebulosi, con le ovvie ricadute sulle tutele (gravidanza inclusa). Lo sappiamo noi, al pari di politica, istituzioni sportive, proprietari, atleti, rappresentanti sindacali e procuratori. Lo sappiamo tutti, e siamo gli stessi “tutti” che a parole sono dalla stessa parte, quella della Lugli. Tutti insieme contro un’avvocatessa di Pordenone che ha scelto una strada giuridica in una caso di specie? Dai, se ci sforziamo possiamo mettere a fuoco che il problema vero sta altrove.
Non sarà una fantomatica e ipocrita “coesione”, “solidarietà” o “buona volontà” a produrre il cambiamento, e neppure la pur ammirevole voglia di giustizia ed equità che anima i molti e genuini osservatori esterni. L’unica possibilità è riscrivere tutto da zero, partendo da principi come il rispetto reciproco, la serietà professionale, la Costituzione, la protezione dei soggetti deboli, gli investimenti in innovazione e sviluppo, la cultura della compliance e della trasparenza. Parlo di arrivare a far esistere uno e un solo contratto per tutti i professionisti di fatto, frutto della trattativa tra i veri rappresentanti delle società e i veri rappresentanti degli atleti. Parlo di definire tutti coloro che lavorano nello sport con lo stesso nome (professionisti) e di legarli ad identici diritti e doveri, al pari dei loro datori di lavoro (che tali sono).
Dobbiamo comunque ringraziare Lara Lugli per aver sollevato il “caso”. Se qualcuno fosse interessato a una trattazione un po’ più ampia, propongo il mio ultimo lavoro editoriale. Viceversa, ci si può accontentare di una Commissione, un convegno, un’intervista, un balletto di responsabilità, un’ospitata, un post. Cose che durano lo spazio di un mattino, purtroppo. E che non diventano salari più sicuri e tutele, come Lara Lugli (e colleghe/i) devono pretendere. A patto però di farlo prima della firma del prossimo contratto, visto che ormai il passato non si può più cambiare.