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Di vittorie, sconfitte, referendum e duelli

Ieri, come altri, ho visto il dibattito tra Renzi e Zagrebelsky. Provo a ragionare su un paio dei mille spunti, premettendo che ho già deciso da mesi cosa voterò e da anni che non lo farò a seconda di quanto mi convincano le pur valide e interessanti opinioni di Tizio e Caio. Queste ultime sono meri contributi alla formazione della mia opinione, non certo surrogati della predetta che devo assumere in “copia e incolla” a seconda di quanto mi piaccia l’estensore. Ne consegue, of course, che non tifavo (orrore!) per alcuno dei due. Aggiungo che da tecnico del settore non dovevo aspettare tre ore di dibattito per farmi un’idea su chi alla fine sarebbe risultato “più convincente”, e che alla cosa non annetto alcun valore per i motivi di cui sopra.

 

  • Zagrebelsky ha tirato in ballo un verbo, “vincere”, che mi è ovviamente familiare. La vittoria nello sport e la vittoria nelle elezioni o al referendum sono concetti simili ma tutt’altro che eguali. Nello sport vincere è l’unico motivo per cui si partecipa, altro che l’importante è partecipare. Chi vince deve essere premiato, ma è una pessima idea fermarsi al detto che a Pizzo Calabro suona più o meno “‘ccu vince è ‘nu bravo figghlolo, ‘ccu perde si gratta ‘u citrolo”. Questo è falsissimo, specialmente in competizioni a noi care che si sviluppano per mesi e in cui il titolo viene aggiudicato dopo un nobile istituto come i playoff che azzera tutto. Nessuna vittoria è casuale, chi vince ha meritato di farlo (sempre e comunque). Chi perde però va valutato al di là del mero risultato, perché altrimenti l’analisi si appiattisce e si perde la ricchezza di un fenomeno straordinario come lo sport. Quell’assunto, che in italiano recita “chi vince ha sempre ragione”, è ancor più falso e soprattutto pericoloso nella vita pubblica. Il potere non è un trofeo da mettere in bacheca, ma un bene preziosissimo che si riceve pro tempore solo e soltanto nell’interesse comune. Chi vince le elezioni o il referendum vede il proprio punto di vista più legittimato rispetto agli altri dall’elettorato. Il che non significa che quegli altri punti di vista debbano/possano sparire, anzi. Devono concorrere necessariamente alla definizione dell’azione di governo e amministrazione, altrimenti la democrazia si affievolisce. Devono essere ascoltati, come le ragioni degli altri. Non stiamo parlando di fisime di un barboso professore che ogni tanto perde il filo in TV, e non stiamo dipingendo il suo baldo avversario come un futuro despota che sta cercando di trasformare l’Italia in una dittatura. Questa è la caricatura della discussione, quella che passa perché regna la fretta, perché conta solo il risultato, perché tanto Renzi è un massone che prende ordini da JP Morgan o Zagrebelsky un barone che difende i suoi privilegi ed è pure un po’ rincoglionito, tanto che ci mette dieci minuti per dire una cosa. E invece questo punto del rispetto degli sconfitti (nello sport) e delle minoranze (nella vita pubblica) non può essere solo un esercizio di stile. Dovrebbe essere al centro della discussione, ben al di là del referendum e del suo risultato. Ne consegue che la prudenza nel levare pesi/contrappesi e organi/momenti di garanzia non è un vezzo da radical-chic, ma qualcosa di infinitamente più importante. Tra i due, Zagrebelsky è stato quello che ha lanciato il tema e ha provato a ragionarci di più. Questo non mi serve per decidere cosa votare al referendum (già fatto) chi ha vinto il duello (nessuno) o chi è meglio tra i due (ancora nessuno). Zagrebelsky non mi ha convinto nel merito in ben più di un passaggio, non è quello il punto. Nell’invitarmi a ragionare sul termine “vincere” però mi ha convinto. Renzi deve provare a vincere per lavoro, e non ci sono problemi su questo. Sarebbe importante però, come segnale, che spiegasse bene quali sono i rischi del perseguire a tutti i costi la vittoria invece di ammiccare alle medaglie che ha oggi sul petto. Doping e corruzione, combine e concussione, simulazioni e trasformismi non nascono sotto i cavoli, ma trovano in una nozione sbagliatissima di “vittoria” comodi alibi. Lo so: troppo lungo, barboso, teorico. Sarà…

 

  • L’uso dei “quick facts” come una clave è il motivo per cui non darei mai a questi dibattiti il compito di farmi decidere cosa votare. “Fatto”, proprio come “vittoria”, è una parola che non possiamo dare per scontata fermandoci alle apparenze e agli stereotipi. Specie in materie così complesse, stabilire cosa è un fatto è molto (molto molto) complicato. Pensiamo ad esempio al cosiddetto “ping-pong”, ieri evocato più che ai tempi degli sforzi diplomatici USA per avvicinarsi alla Cina. Qui trovate alcune statistiche, che come tutti i numeri necessitano a propria volta di interpretazione e che rappresentano un panorama comunque parziale di un autentico ginepraio. Chi fa propaganda dice “per fare una legge ci han messo 900 giorni” o (è la stessa identica cosa) “per il lodo-Alfano 19 giorni”. Certo, anche questi sono fatti. Peccato che estrapolati dal contesto e tacendo i loro gemelli che servono per definire quel contesto i “fatti” in questione non ci aiutino a dipingere la situazione ma solo a “vincere” (un duello TV, un referendum, un’elezione). Idem, solo per fare un altro esempio, quando si dice che con l’Italicum 240 deputati sarebbero eletti con le preferenze sarebbe meglio non tacere il fatto che questo è inesatto (dipende da quante candidature plurime ci sono) e che non è frutto della bontà di lor signori ma di una sferzante sentenza della Corte Costituzionale (“alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti”). L’importante non è la discussione nel merito della singola circostanza, che è di pazzesca complessità e come tutte le discussioni altamente argomentabile. L’importante è invece capire che sbandierare con tracotante sicumera tre o trenta cose imparate a memoria per “vincere” tradisce lo spirito costitutivo di qualsiasi iniziativa.

 

Ecco, un nuovo spirito, quello sì che sarebbe rivoluzionario. “Nuovo” non significa solo diverso da quello precedente, più cool, più trendy e più social. “Nuovo” significa fatto di buona fede, di riconoscimento delle complessità, delle sfumature, delle altrui posizioni, delle sconfitte stesse. Nel nome di un “noi” ben più importante di qualsiasi “io”. Sì, è utopico. Sì, intanto qualcuno vincerà e qualcuno perderà un referendum, e noi dobbiamo votare “sì” o “no”, non scrivere una tesi di laurea sulla scheda. Lo capisco perfino io, ci mancherebbe. Solo che fino a che ragionare sulle cose sarà solo e soltanto tempo perso, allora sì che la sconfitta sarà di tutti.

 

 

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2 Comments

  1. Alessandro Villano Alessandro Villano

    Leggo, annuisco, e mi compiaccio di trovarmi in accordo con quanto scritto da Flavio Tranquillo. Apprezzo e trovo giustissimo fare una verifica dei fatti, “fact checking”, che non si discosti dal reale e non sia basata sul sentito dire. Ancora una volta “chapeau”.

  2. nerio nerio

    In una parola democrazia

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