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Di riti e liturgie

Nel mio ultimo lavoro ho cercato di delineare una possibile visione complessiva dello sport, inteso come fenomeno culturale, sociale ed economico nei diversi contesti di riferimento. La tesi è che lo sport dovrebbe rinforzare la caratura socio-culturale alla base e quella economica al vertice, rimanendo ancorato ai propri valori fondativi, necessari sul piano educativo-formativo e civile. Questo non toglie che lo sport di alto livello, e il suo seguito, esprima ricchissimi contenuti emotivi, riconducibili ad arte e intrattenimento. La proposta del libro è quella di non trasformarli in qualcosa di trascendente e di inquadrarli con un’ottica laica e razionale, dimenticando gli eccessi. Insomma, non è peccato porsi il problema di chi e come debba finanziare questa attività, che senza generare profitti di medio-lungo periodo è nociva per la comunità (sempre al netto del suo valore assoluto). Anche perché non è lo sport in quanto tale ad avere un valore messianico, bensì lo sport fatto in una certa maniera, che va eventualmente costruita da zero.

Mi rendo però sempre più conto che a questa lettura “laica” ne sia contrapposta una (maggioritaria) fortemente “religiosa”. Le virgolette vogliono significare come a questi due aggettivi non vada affatto attribuito un significato letterale. Non può però essere un caso se, per esempio, in due recenti articoli (uno sul Foglio e uno sul Fatto Quotidiano) del valente collega Andrea Romano ho trovato espressioni che rimandano direttamente alla religione in senso stretto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La questione è centrale, perché se tifosi e appassionati sono i fedeli di un culto e l’evento agonistico è una liturgia, un’eucaristia, un simbolo, un momento di assoluzione dai peccati, sarà poi impossibile tornare alle cose terrene e considerare lo sport di alto livello, per quanto denso di dimensioni emotive, un’attività di impresa come le altre. Con l’effetto, paradossale, di far finta di non vedere con quali e quanti artifici, contabili e non, si tenga in piedi questa pagana (e ipocrita) versione del panem et circenses. Mi perdonerete, ma fatico molto a considerare questa maniera di guardare allo sport più nobile, democratica, solidale e poetica  rispetto a un serio ragionamento su come e chi debba sostenerlo, sempre e solo per affermarne quei ricchissimi (e laici) valori.

Vederla “religiosamente” è legittimo, a patto però di capire che è proprio da qui che viene quella diseconomicità, ritenuta erroneamente inevitabile, che mette in moto il circolo vizioso che, a sua volta, blocca  sul nascere cambiamento, sviluppo e innovazione, favorendo invece acrobazie, opacità e rendite di posizione. La preghiera (laica…) a chi la pensa diversamente è quella di discutere senza pregiudizi, senza dogmi, senza stereotipi e senza complessi di superiorità o inferiorità. Senza cioè ritenere, non avendolo mai dimostrato (perché è del tutto indimostrabile) che tra la poesia dello sport e la sua sostenibilità economica ci sia un insanabile contrasto. Anche perché, per me, è esattamente il contrario. Buon dibattito a tutti.

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One Comment

  1. Alessandro Selmi Alessandro Selmi

    Buongiorno, mi occupo da volontario di una Associazione sportiva dilettantistica, in uno sport minore in Italia come il Baseball. Dal mio punto di vista dovremmo dividere in due grandi mondi lo sport, da una parte il professionismo , per il quale devono valere logiche completamente diverse da quelle applicate in Italia. Lo sport è spettacolo e lo spettacolo non esiste più se gli ultimi 9 campionati sono stati vinti per distacco dalla stessa squadra. Lo sport è competizione, ma la competizione non esiste se la differenza dei budget a disposizione tra il team più importante della pallacanestro italiana e il resto del e squadre è così marcata (e infatti, oggi un tifoso Olimpia si diverte vedendo l’Eurolega, si diverte meno con i +30 della Coppa Italia). Gli americani, almeno su questo, sanno perfettamente di cosa si parla, tanto che in MLB , negli ultimi 20 anni, nessuno ha vinto per 2 anni di fila il campionato. Tanto che chi arriva ultimo ha la prima scelta al draft, perché creare competizione è il sale dello spettacolo stesso. Certo in USA non esistono gli ultras e andare allo stadio è un passatempo, non una battaglia per persone dal cuore forte. Ma tutto questo parte da un diverso tessuto culturale e sociale, non migliore in sé, ma senza dubbio diverso.
    Quindi se chiedete a me, per esempio per calcio e basket, voterei subito per la Superlega europea, con requisiti in ingresso per i team per strutture e piani di investimento. Questo favorirebbe anche i campionati nazionali, a quel punto veramente interessanti e fucina di giovani talenti da far emergere, non ostaggio di 2 o 3 presidenti danarosi.
    Per lo sport dilettantistico, invece, la sostenibilità passa da altre dinamiche, da una cultura dello sport che deve nascere nelle scuole e nella vita di tutti i giorni, orientata alla formazione di cittadini migliori e più responsabili, abituati alle sfide con se stessi e con gli altri. Le Istituzioni pubbliche (sportive e non) molto potrebbero e dovrebbero fare in questo senso, se non fossero impegnate in dinamiche politiche fine a se stesse. Se aggiungiamo che i dirigenti sportivi capaci sono pochissimi e spesso non adeguatamente formati, abbiamo un discreto quadro della situazione.
    In questo contesto, gli sforzi delle Asd, dal reclutamento dei più piccoli alla gestione di impianti sportivi obsoleti e costosissimi, rischiano di trasformare in “martiri” persone che, semplicemente, vorrebbero svolgere attività sportiva sana e divertente, vivendo in una comunità.
    Come dico spesso ai miei collaboratori, in Italia sono 2 le cose che solo un pazzo potrebbe portare avanti: fare impresa e fare sport.

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