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Adult education

 

Nella giornata di ieri la UEFA ha reso nota la sua decisione rispetto ai fatti di Parigi, risalenti a esattamente tre mesi prima. Si tratta della penultima tappa ufficiale della vicenda, atteso che “the motivated decisions will be published in due course”. Senza disporre delle motivazioni, non è infatti possibile capire quali punti dell’articolo 11 delle DR UEFA e dell’articolo 6 delle GTC siano stati presi in considerazione.

Essendomi dedicato già in passato alla vicenda, non mi verrebbe difficile estendere qualche considerazione sulle procedure e le tempistiche. Idem dicasi per riflessioni circa l’effettività dei provvedimenti sportivi (secondo questa fonte qualificata Coltescu, decaduto da internazionale il 31 dicembre 2020, potrà comunque arbitrare nel campionato rumeno a sospensione UEFA vigente) e sulla diversa idea di trasparenza che io e le istituzioni sportive deteniamo.

Concentrarsi su questi aspetti, per quanto meritevoli di attenzione, comporterebbe però una minore messa a fuoco della big picture sottesa a questo episodio (e agli altri, simili, che inevitabilmente lo hanno seguito e lo seguiranno). L’espressione più importante del dispositivo UEFA è, a mio avviso, educational programme. Ai due direttori di gara viene infatti imposto di partecipare a un non meglio precisato programma (ri)educativo «alle condizioni determinate dagli organi arbitrali della UEFA».

Quell’aggettivo, educational, per me salta fuori dal foglio. Anche in questo caso, potremmo puntare l’attenzione sulla (del tutto eventuale) titolarità dell’UEFA a educare o rieducare chicchessia rispetto alla scelta del linguaggio e delle parole da usare in campo. Sarebbe un ragionamento giustificato, forse anche necessario, ma è di palmare evidenza che la questione riguardi qualcosa di più grande. La domanda che mi assilla è, ridotta ai minimi termini, «chi deve educare chi?». Badiamo bene, perché la domanda non è banale e non può avere una risposta superficiale.

È molto possibile che il mio assillo nasca dalla strenua convinzione che il giornalista non sia un educatore, almeno se a questo termine diamo l’accezione «chi per vocazione o professione compie l’ufficio di educare i giovani» riportata dalla Treccani. Il giornalista, a mio avviso, cerca invece di determinare fatti e ipotesi plausibili per affidarle all’opinione pubblica, senza preoccuparsi, nei rigorosi limiti dettati da legge, etica e deontologia, dell’effetto che produrranno.

Per la stessa fonte, educare significa sviluppare e affinare le attitudini e la sensibilità, in modo assoluto o dirigendole verso un fine determinato. Al di là dell’ambito professionale, che come detto a mio avviso esclude un’intenzione educativa, anche nell’esercizio della libertà di azione e opinione rifuggo dal dirigere qualcuno verso un fine determinato. Senza per questo privarmi della possibilità di mettere le mie (modeste) capacità a disposizione di quelli che, del tutto eventualmente, vogliano usarle per affinare le proprie qualità intellettuali o morali. Visto dalla prospettiva inversa, trovo che qualsiasi persona con la quale vengo in contatto mi educhi, e lo ritengo un processo preziosissimo.

Tutt’altra cosa è però istituzionalizzare, come fa la UEFA nei confronti dei due arbitri rumeni (e non degli altri?) il concetto. Sul perché la scuola abbia il dovere, non già il diritto, di educare siamo tutti pacificamente d’accordo. Sul perché la pena abbia una finalità rieducativa, anche. In ambedue i casi, e nei numerosi altri simili, parliamo infatti di un bene comune sociale, che deve essere preservato da qualcuno nell’interesse di tutti. Viceversa, con il massimo rispetto per le finalità universalistiche e solidaristiche che meritevolmente l’ente regolatore di una parte del calcio europeo persegue, la mission di UEFA (come NBA, CIO, CSI, etc. etc.) è quella di gestire e far prosperare delle competizioni sportive.

Lo sport educa? Quando è proposto nella maniera corretta sì, come poche altre cose. E con la stessa forza, diseduca quando è invece proposto nella maniera sbagliata. Un’entità statale che si vedesse, condizionale, investita del compito di garantire il diritto allo sport dei giovani non potrebbe che partire da un fine educativo in senso stretto, assumendosi la gravosa ma utile responsabilità. Il presidente di una ASD o l’Amministratore Delegato di una grande azienda sportiva, invece, orienta le proprie azioni rispetto al successo dell’organizzazione che dirige. Oggi, quel successo dipende molto dalla percezione dell’intenzione che si associa, spesso a furor di popolo, a parole dette (nel caso di specie a una singola parola, in rumeno). Il valore simbolico ed evocativo del linguaggio è perciò al centro di considerazioni che impattano con forza eccezionale sui versanti, tra gli altri, della politica, dell’economia, dell’etica e della morale.

Non possiamo aver paura di affrontare l’argomento, per quanto difficile e complesso sia. In coerenza con quanto detto sopra, auspico solo che non ci si fermi alla superficie. Quando parliamo, ad esempio, di valenza simbolica di un qualcosa, credo che la storia del concetto di simbolo nella politica possa esserci d’aiuto. Ancora di più, trovo che sia imperativo non limitare a moralismo, relativismo, riduzionismo o bigottismo il dibattito sul delicato tema del politically correct. In senso puramente esemplificativo, e non certo esaustivo, segnalo che della questione si può parlare così, ma anche così. Non trovo di uguale valore i due contributi, sia ben chiaro. Estrapolando le conclusioni di Bruno Troisi, Professore ordinario di diritto civile, ritengo che egli ci indichi la via quando dice che

il politicamente corretto avrebbe dovuto seguire la sua vocazione originaria che non era quella di “risolvere” determinati problemi o di “imporre” il pensiero unico, bensì quella di fissare delle regole preliminari per una civile discussione sui fenomeni di emarginazione e di esclusione che caratterizzano le nostre società, rivolgendosi a un certo gruppo etnico, sociale o culturale nei termini che il gruppo stesso avesse scelto, dimostrando in tal modo un rispetto e una volontà di dialogo che avrebbero aumentato le possibilità di successo nella discussione successiva.

Ugualmente, linko entrambi i contributi, proprio per spiegare che l’idea preliminare non può essere quella di educare (o peggio indottrinare), bensì quella di informarsi, per poi far trarre a ognuno le proprie conclusioni. Con i tremendi limiti che ha, questa impostazione mi pare la migliore per arrivare a una nozione condivisa di concetti davvero cruciali per il nostro vivere insieme. Buon cammino (a ostacoli) a tutti.

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